Introduzione di un libro che ho scritto a quattro mani con Riccardo Petrella all’inizio degli anni Duemila con Riccardo Petrella (anche se per marketing in prima pagina c’è solo il nome del più noto Riccardo Petrella.
Per una nuova narrazione
Nessun sistema, gruppo sociale o essere umano può esistere in assenza di una sua narrazione. Tutto è narrazione – un libro, una legge, un quadro, un albero, una persona -, e tutto è narrato – la storia di un’impresa agricola, di un’istituzione sindacale, di uno strumento musicale, la vita di una famiglia, di un popolo di un fiume.
La narrazione è ideologia e qualcosa di più: è il vissuto di emozioni, gioie, sofferenze, realizzazioni. La narrazione comprende necessariamente il passato, il presente, il futuro. Il soggetto della narrazione è sempre un soggetto collettivo anche se mediato da soggetti individuali come lo scrittore, il giornalista, l’insegnante, l’anziano.
La narrazione dominante
La narrazione oggi dominante è ispirata da tre forze maggiori.
- La fede nella tecnologia
La fede nella tecnologia come elemento fondatore della potenza creatrice degli esseri umani è diffusa in tutti i settori delle società occidentali e occidentalizzate. Si tratta di una fede la cui origine risale agli inizi della “rivoluzione industriale”. Essa ha raggiunto momenti di fulgore nella seconda metà del XIX secolo, negli anni Venti del secolo scorso, nel secondo dopoguerra, ed in particolare negli ultimi trenta anni, durante i quali i fedeli più ferventi hanno frequentemente annunciato l’avverarsi di sempre nuove “rivoluzioni tecnologiche” e di “nuove società”.
Secondo la narrazione oggi dominante, la scienza trasformata in tecnologia è alla base dello Sviluppo e del Progresso: non vi sarebbe sviluppo né progresso economico, sociale e umano senza sviluppo e progresso scientifico e, soprattutto, tecnologico. Il benessere attuale ed il futuro delle società umane dipenderebbero dalla scienza e dalla tecnologia. Oggi, il ruolo chiave sarebbe svolto soprattutto dalle biotecnologie e dalle nuove tecnologie d’informazione e di comunicazione.
Secondo i gruppi sociali dominanti, la bontà del libero mercato risiederebbe nella volontà e nella capacità del capitalista di investire nella concezione e produzione di tecnologie sempre più efficaci che aumentino la produttività dell’impresa e, di conseguenza, la produttività dell’economia globale, creando così nuove opportunità per la produzione di ricchezza materiale e immateriale.
- La fiducia nel capitalismo
Sempre secondo la narrazione dominante, scienza, tecnologia e capitalismo sono “naturalmente” interrelati. Come il capitalismo industriale fordista trovò nel taylorismo la legittimazione di cui aveva bisogno, così il capitalismo totale universale di oggi legittima la sua esistenza nella conoscenza. Ecco perché si è autodefinito una “knowledge driven economy” (“economia spinta dalla conoscenza”) dopo essersi proclamato “information based economy” (“economia fondata sull’informazione”).
Il capitalismo sarebbe in una fase di trasformazione profonda perché starebbe generando una nuova società, la “knowledge based society” (“società della conoscenza”). Questa società sarebbe nuova perché le conoscenze attuali permetterebbero di “gestire” in maniera nuova le due coordinate fondamentali della vita individuale e collettiva, il tempo e lo spazio. Termini come anytime (in qualsiasi momento) e anywhere (dovunque) simbolizzerebbero la capacità di azione permanente ed illimitata – lo sviluppo “infinito” – dell’economia attuale.
Lo “spirito” del capitalismo consisterebbe nell’innovazione permanente, quella che Schumpeter definì “la distruzione creatrice”, nel desiderio di aumentare sempre più le capacità di creazione dell’homo faber e dell’homo sapiens.
- La convinzione dell’impossibilità di alternative al sistema attuale
La terza grande forza alla base della narrazione dominante è rappresentata dalla convinzione – sempre più diffusa nell’opinione pubblica mondiale – che non esistano alternative al capitalismo, e quindi dell’impossibilità di modificare il sistema “esistente”.
Già negli anni Ottanta, la signora Thatcher aveva espresso questa convinzione in maniera lapidaria con il famoso acronimo TINA – There Is No Alternative (Non c’è alternativa). Si può dire lo stesso della tesi sulla fine della storia apparsa negli anni Novanta secondo la quale il XIX ed il XX secolo sarebbero stati segnati dall’opposizione tra capitalismo e comunismo e si sarebbero conclusi con la vittoria “definitiva” del capitalismo. La nuova storia sarebbe possibile solo nell’ambito ed all’interno del sistema capitalista mondiale.
Il dibattito su questi temi è stato molto forte in Italia prima delle elezioni politiche. E tra sinistra “riformista” e sinistra “radicale” lo è tuttora. Per la sinistra “riformista” non si può uscire dall’economia capitalista. Sottovalutare la forza e l’importanza di questa convinzione sarebbe un errore. Non perché essa sia corretta ma perchè poggia su teorie che apparentemente gli danno forza e legittimità, anche se sono discutibili, specie per quanto riguarda la loro applicazione in campo sociale e politico. Penso alla teoria della complessità, alla teoria del caos…
La teoria sulla complessità crescente dei sistemi fisici e biochimici è utilizzata per affermare che la complessità del mondo renderebbe impossibile ogni cambio globale di sistema. Nel contesto attuale vi sarebbe spazio solo per cambiamenti locali.
Alle stesse conclusioni conduce la teoria del caos, secondo la quale la società sarebbe diventata un insieme complesso di relazioni instabili, fondate e plasmate da flussi di ogni genere in continua mobilità caotica. In questo contesto fluttuante, senza centro organizzatore capace di monitorare l’insieme dei flussi, sarebbe possibile solo la costruzione di “ordini” locali di corta durata, fonte a loro volta d’instabilità per il sistema globale. Le centinaia di “guerre” oggi in corso – militari, economiche, etno-culturali – sarebbero l’espressione inevitabile della “natura” caotica del sistema.
L’impossibilità di definire ed applicare un accordo mondiale sul cambiamento climatico globale dimostrerebbe – secondo i promotori di queste tesi – i limiti obiettivi all’emergere di soluzioni globali alternative al sistema esistente. Il nuovo mondo cyberspaziale sarebbe un’ulteriore dimostrazione del fatto che la società debba essere considerata come il risultato di una costruzione caotica che produce “ordini” locali provvisori attraverso la tessitura di migliaia di reti spontanee in continua evoluzione..
La narrazione dominante ci dice, allora, che per permettere alle nostre società di evolvere in maniera più o meno “ordinata”, e trasformare in opportunità positive le relazione caotiche ed instabili, è opportuno lasciare alla libertà stessa degli attori del sistema, degli individui e dei gruppi organizzati, in competizione tra loro, la responsabilità della regolazione. La soluzione sarebbe l’autoregolazione. Autoregolazione delle imprese, fondata sull’adozione di codici volontari (di condotta generale, ambientali, sociali…) il rispetto dei quali resterebbe sotto il controllo delle imprese stesse. Autoregolazione tra consumatori e produttori, tra lavoratori individuali e datori di lavoro. Autoregolazione anche per quanto riguarda la pensione (per capitalizzazione…) da “regolare” sui mercati finanziari (assicurazione individuale, fondi di pensione…). Autoregolazione nell’azione degli Stati, i quali, pur conservando intatto il principio di sovranità “nazionale”, abbandonerebbero la pratica della approvazione di trattati, convenzioni e programmi d’azione internazionali vincolanti per l’insieme degli Stati, per adottare quella più flessibile e meno coercitiva, degli accordi bi e multilaterali su progetti specifici, interessanti una zona geografica o un settore particolare.
Addio dunque all’idea di un diritto mondiale, di regole e di istituzioni giuridiche mondiali, di istituzioni politiche di regolazione mondiale, cioè di quello che gli specialisti chiamano l’hard law (la legge scritta, “forte”, universale…). Largo invece alla soft law, alla regolazione leggera, ad hoc, “locale”, reversibile, all’iniziativa individuale e alle regole spontanee.
Il 3° Vertice Mondiale della Terra su Sviluppo e Ambiente tenutosi a Johannesburg nel settembre 2002, ha rappresentato un esempio illuminante della priorità data dal sistema attuale alla soft law, al contrario, invece, del 1° Vertice Mondiale della Terra, svoltosi dieci anni prima a Rio de Janeiro – malgrado l’opposizione del presidente degli Stati Uniti, George Bush padre. Il Vertice di Rio si concluse con l’adozione di due convenzioni mondiali (sulla biodiversità e sulla deforestazione), e un programma di azione vincolante – l’Agenda 21 – per tutti gli Stati presenti al Vertice. Anche il 2° Vertice della Terra del 1997 a Kyoto – nonostante le ancor più forti opposizioni e reticenze dei potenti del mondo -, portò alla firma del Trattato sul cambiamento climatico mondiale – rinnegato nel 2000 – da George Bush figlio dopo la sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti al posto di Bill Clinton.
Il 3° Vertice di Johannesburg non ha discusso né approvato alcun trattato o convenzione mondiale. Solo un retorico “documento politico” finale che brilla per la miseria dei contenuti e la mancanza di coraggio politico. In più, la maggior parte dei 152 impegni assunti altro non sono che ripetizioni di impegni precedenti non realizzati, come l’obiettivo di stanziare lo 0,7% del PNL di ogni paese ricco all’aiuto ufficiale internazionale allo sviluppo dei paesi poveri. Il Vertice fu ridotto ad una specie di “fiera degli accordi”, dove ciascuno venne con i suoi progetti da vendere e ripartì con gli accordi che riuscì a “combinare” con gli altri “venditori” e finanziatori interessati.
La narrazione della Teologia Universale Capitalista
Nella prima parte del presente saggio, scritto a partire da un’intervista realizzata da Roberto Bosio, ho cercato anzitutto di spiegare il discorso fondatore della narrazione dominante. Il discorso esiste ed è coerente. Propongo di chiamarlo la Teologia Universale Capitalista (TUC). La tabella 2 (p. 20) ne riassume gli elementi essenziali. Il lettore impaziente di sapere di cosa si tratta può andare a leggere immediatamente la tabella. Se invece fa parte di quelle persone che sanno procedere con calma e metodo, può tranquillamente continuare a leggere il libro nell’ordine in cui è stato scritto.
La TUC è alla base del sogno mondiale del capitalismo e di una società di mercato competitiva. La Teologia Universale Capitalista è indubbiamente affascinante. Malgrado non manchino i postulati di partenza facenti riferimento alle teorie sulla complessità e sul caos, la TUC si presenta come un sistema “scientifico” capace di dare certezze e soluzioni sulla base delle “leggi del mercato”, e quindi come un sistema aperto all’innovazione, capace – afferma – di produrre benessere e sviluppo, in modo da assicurare sempre i mutamenti necessari affinché il sistema si riproduca nel tempo.
Secondo la narrazione dominante, anche i poveri e gli esclusi possono trovare la spiegazione della loro condizione e dei loro problemi nella Teologia Universale Capitalista – oltre a parole di conforto e promesse di cambiamento. A condizione, beninteso, che abbiano la volontà e la capacità di incamminarsi sulla buona strada, o riprendere il giusto cammino.
L’analisi delle caratteristiche principali del sistema mondiale costruito negli ultimi trenta anni, conformemente ai principi della Teologia Universale Capitalista, ci permetterà di evidenziare, sempre nella prima parte, che il sistema capitalista di mercato mondiale è fondamentalmente un mondo per pochi nel quale:
- regna la violenza;
- la persona umana è ridotta a “risorsa umana”, al pari della risorsa petrolio, della tecnologia…
- qualunque forma ed espressione di vita è mercificata, oggetto di scambio commerciale e di valorizzazione finanziaria;
- il tempo, lo spazio sono spappolati, virtualizzati, ridotti a variabili di costo e di profitto;
- i diritti umani e sociali, universali ed imprescrittibili, sono svuotati di contenuto, considerati reversibili e negoziabili, e trasformati in “bisogni vitali”.
Questo perché la Teologia Universale Capitalista:
- ha ridato alla strategia di potenza il rango di principale priorità politica di uno Stato;
- ha fatto della “guerra” (militare, economica, sociale, culturale) lo stato permanente del mondo;
- ha trasformato l’educazione in un sistema di formazione mirante a selezionare i migliori, cioè le “risorse umane” di cui – si afferma – gli eserciti del XXI secolo (le imprese multinazionali mondiali) hanno bisogno per sopravvivere in un contesto fatto di guerre di conquista del mondo e della natura.
È riuscita, infine:
- ad imporre un controllo sempre più forte a livello di contenuti e di modalità sui grandi mezzi d’informazione e di comunicazione. Anche Internet è stato in maniera crescente preso in trappola ed asservito alle esigenze della narrazione dominante;
- ad ottenere la passività, quando non è il caso di parlare di complicità, del mondo della scienza, della cultura e degli “intellettuali” in generale.
Una narrazione differente
La critica ed il rigetto della narrazione dominante sono necessari, ma non sufficienti.
Nella seconda parte del saggio cercherò di mostrare che per costruire un mondo differente è ancor più necessario narrare un altro mondo, elaborare e credere in una narrazione della società differente da quella raccontata dalla Teologia Universale Capitalista. A sostegno di questa affermazione c’è anche una ragione pratica di non poco conto. L’asserita inevitabilità del cambiamento parziale, “locale” e provvisorio all’interno del sistema, è giustificata sul piano logico solo se si accetta la narrazione dominante. Una narrazione differente modifica la definizione e quindi la percezione del campo del possibile e dell’impossibile. Ciò che è impossibile secondo il quadro di riferimento della narrazione dominante, può e deve diventare possibile, alla luce di una differente narrazione.
Non penso che sia assolutamente necessario dare un nome alla narrazione differente per mostrare immediatamente, con alcune parole chiave, la differenza con la Teologia Universale Capitalista. La nuova narrazione troverà il suo nome strada facendo, sul terreno dell’azione. Quel che è invece indispensabile, è proporre i principi su cui devono fondarsi il discorso e l’azione della narrazione differente. Ciascuno di noi può e deve apportare il proprio contributo.
A mio avviso, la nuova narrazione deve fondarsi sui seguenti principi:
- Il principio della vita
Riconoscere il diritto di tutti e di ciascuno ad una vita degna, su cui fondare la definizione dell’oikos nomos (l’economia), cioè le regole (nomos) della casa (oikos).
- Il principio dell’umanità
Oggi il soggetto di riferimento per la cittadinanza è la “nazione”, o il “popolo”. È tempo di riconoscere l’umanità intera come soggetto politico e giuridico portatore di diritti e doveri. L’immagine della Terra ripresa dallo spazio evidenzia uno spazio terrestre unico e continuo, una geografia non attraversata da linee di separazione di alcun genere. Ne consegue un messaggio: viviamo in un mondo dove “i confini” politici o culturali non devono essere delle barriere e fonti di rigetto/esclusione degli altri, ma elementi al servizio del vivere insieme.
- Il principio del vivere insieme
L’essere umano è un essere sociale. La sicurezza del vivere insieme – la pace –, deve ispirare la definizione delle finalità e delle priorità della politeia (la politica), cioè l’organizzazione della città (polis), a livello delle comunità sociali di base così come a livello della comunità mondiale.
- Il principio dei beni comuni
I beni e servizi essenziali alla vita – individuale e collettiva – dei membri di una comunità umana devono essere di proprietà della collettività e da essa gestiti (produzione, utilizzo, manutenzione, conservazione, sviluppo). I costi associati devono essere finanziati dalla collettività mediante lo strumento fiscale. La responsabilità della gestione deve essere assicurata da organizzazioni pubbliche, sotto il controllo politico diretto della collettività, e funzionanti su basi democratiche (rappresentative o, di preferenza, dirette e partecipative).
La comunità d’appartenenza dei beni comuni varia secondo i tempi, i territori e le culture. Oggi è sempre più giustificato e necessario pensare a definire e gestire i beni comuni dell’umanità.
I beni comuni rinviano ad un’idea più generale e fondamentale, quella del bene comune, nozione con la quale s’intende l’insieme dei principi, delle istituzioni, delle risorse e dei mezzi, e delle pratiche che permettono a un gruppo di individui di costituire una comunità umana, capace di assicurare il diritto ad una vita degna a tutti i suoi membri così come la loro sicurezza collettiva; e ciò nel rispetto dell’alterità, in solidarietà con le altre comunità umane e le generazioni future, e avendo cura della sostenibilità globale del pianeta.
- Il principio della democrazia
Negli ultimi anni la complessità crescente del funzionamento delle società occidentali ed occidentalizzate, così come i processi di “globalizzazione” delle economie e dei flussi di ogni genere, sono stati utilizzati per indebolire la democrazia. Le oligarchie (vecchie e nuove) stanno vincendo dappertutto.
La complessità e i processi di mondializzazione contengono invece potenzialità elevate per promuovere forme nuove di democrazia. I parlamenti, da moltiplicare in tutti i settori ed a tutti i livelli, devono nutrire i processi di definizione dell’architettura e la costruzione dell’ingegneria del governo politico del mondo. Il che significa promuovere luoghi e momenti nuovi di partecipazione e di rappresentanza politica.
- Il principio della responsabilità
L’etica ed il diritto (e non la contrattualità autoregolata) sono alla base della definizione della responsabilità, soprattutto della responsabilità collettiva. La responsabilità (di chi, in e a quali condizioni…) deve esercitarsi principalmente nei confronti del diritto alla vita per tutti, della promozione e garanzia del vivere insieme (la pace), dei diritti dell’umanità, generazioni future comprese, della “gestione” dei beni comuni, del funzionamento della democrazia.
La pratica della responsabilità richiede certezza e continuità a livello delle regole e delle istituzioni, trasparenza e cooperazione a livello del funzionamento decisionale e dei comportamenti. Per essere efficace la responsabilità deve riposare sulla fiducia e sulla condivisione di obiettivi comuni.
L’esercizio della responsabilità significa ricorrere ai principi di
– precauzione: anche se l’obiettivo di rischio zero non è raggiungibile, è saggio procedere con prudenza allorché la conoscenza sulle implicazioni e sulle conseguenze a lungo termine di un’azione resta incerta e inadeguata;
– reversibilità: una società deve essere in grado, come un automobile, di fare marcia indietro);
– prevenzione: questa ispira un sistema di gestione ottimale delle risorse diverso da quello fondato sulla priorità data alla riduzione dei costi.
7. Il principio dell’utopia
Il bello, il buono, il giusto, l’amicizia, l’amore, la pace, la solidarietà, l’allegria, la festa, sono valori “politici” e “sociali” fondamentali. Ogni società umana deve mantenere una grande capacità di utopia, di progettualità utopica, soprattutto nel senso di eu-topo, di un luogo buono. Il pragmatismo, il cinismo non hanno mai contribuito a fare avanzare la bellezza, la giustizia, l’amore, la solidarietà, la festa… È necessario avere la voglia di sognare.
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In questo lavoro, non ho trattato gli aspetti relativi alla pace (salvo alcuni cenni fatti nell’ultimo capitolo), ed all’altra forma principale di globalizzazione attuale, in aggiunta e concomitanza alla globalizzazione dell’economia capitalista di mercato, che è il consolidamento in corso dell’impero mondiale USA e della guerra globale imperiale. Su di essi ho lavorato nel libro già citato Il diritto di sognare.