La Juventus nelle parole di chi l’ha resa grande (dodicesima puntata)

  • (A proposito di un suo gol di testa in un derby con esultanza in cui mimò la corsa di un toro) ”È stato un goal bellissimo, di cuore e di spirito. È nato da un cross di Thuram, io l’ho girata in rete di testa, quella palla in un angolo, imprendibile per Bucci. Un goal importantissimo, al di là del fatto che ci ha permesso di riagguantare il Torino, perché è stato il mio goal in serie A con la Juventus. E perché avevo promesso di dedicarlo ad Andrea Fortunato; ho dedicato tutta la mia emozione e la mia felicità al ricordo di Andrea eppoi alla sua famiglia”. (Enzo Maresca)
  • “Mi sveglio il lunedì mattina e sono felice. Perchè…? Ecco il perchè: ieri la Juve ha vinto”.
    (Gianni Agnelli)
  • (In risposta alla domanda: “Come si diventa Boniperti?”): “Parlando il meno possibile. Facendo
    il duro. E, nei ritagli di tempo, battendo come Dio comanda qualche calcio d’angolo”.
    (Giampiero Boniperti)
  • “L’anima juventina è un complesso modo di sentire, un impasto di sentimenti, di educazione, di
    bohemien, di allegria e di affetto, di fede alla nostra volontà di esistere e continuamente migliorare”.
    (Enrico Canfari)
  • “Stare alla Juventus significa voler essere i numeri uno e non accontentarsi mai”.
    (Claudio Ranieri)
  • “La Juve, il sogno della mia vita. La sognavo davvero. Perché io, che portavo all’occhiello il distintivo bianconero, avevo in quegli anni un solo desiderio: giocare una partita di serie A con la maglia bianconera. Me ne sarebbe bastata una, ero sicuro, per essere felice per sempre. È andata meglio: in campionato ne ho giocate 444. Ho fatto la mia parte senza sacrifici. Perché ho dato quello che avevo dentro. Sono un uomo felice”. (Giampiero Boniperti)
  • “La maglia della mia vita ha avuto due soli colori, il bianco ed il nero ed era a strisce. Adesso tutti quelli che non mi conoscono penseranno che io sono nato alla Juventus ed alla Juventus sono morto, come calciatore, s’intende. Allora mi accorgo che devo precisare. Non sono cresciuto alla Juventus, io sono di Fiume. I primi calci, lo sapete, si tirano senza importanza, sin da bambini. Se uno, però, è destinato a fare il calciatore di professione, ecco che prima o poi arrivano i suoi primi, calci ufficiali. Per me questi sono arrivati che avevo sedici o diciassette anni, non lo ricordo con assoluta esattezza, in ogni caso ero un pivello e giocavo per l’Olimpia e Gloria di Fiume e la mia maglia era appunto bianconera, come quella della Juventus. Così ora mi sono in parte già spiegato. Ad un certo momento, Olimpia e Gloria si fusero nella Fiumana: eravamo in serie B. Io gironzolavo di ruolo in ruolo. Ora all’attacco come mezzala, ora in difesa come mediano o centromediano. Ero, come tutti i giovani, in cerca di una posizione stabile, nella vita e nel calcio, che per me era la vita, anche se debbo confessare che ero abbastanza versatile come sportivo praticante: nuotavo discretamente, giocavo a basket, facevo ginnastica. Qualcuno mi diceva che io ero un generico dello sport e che perciò ero destinato a non eccellere in un campo specifico. Io sapevo che il calcio l’avevo nel sangue e, siccome ritengo di essere sempre stato un duro, ancor più verso me stesso che verso gli altri, ho puntato i piedi ed ho vinto la mia battaglia, anche se non è stato facile. Avevo superato da poco i diciassette anni, quando giocai (in maglia azzurra) con la rappresentativa della Venezia Giulia contro quella del Veneto, a Udine. Mi misi in luce, tanto è vera che la Pro Patria, che era stata promossa in serie A, mi acquistò. Ed io, ancora giovanissimo, esordii in serie A, udite udite, con la Pro Patria a Bologna. Il Bologna era campione d’Italia. Quel giorno, memorabile anche per ì bolognesi, io ero centromediano. Si perdeva, logicamente, si perdeva per 1 a 0 e fui proprio io che, a sei minuti dalla fine, segnai il goal del pareggio per la Pro. Avevo venti anni, l’età dei sogni di gloria. A casa mia mi dicevano: gioca pure al football, ma devi anche lavorare. Ed io lavoravo in banca, a Busto. Lavoravo, mi allenavo e la domenica giocavo. Poi, nel 1927-28, venne lo scossone decisivo della mia vita: venne a cercarmi la Juventus. Io ero ai sette cieli, mi sembra che fosse umano, ma la Pro Patria non voleva saperne di mollarmi. Mi chiamarono i dirigenti e mi dissero: ‘Varglien, resti, le daremo quel che le offre la Juventus’. I quattrini non hanno colore, le maglie sì, quella della pur amatissima Pro Patria non valeva quella della Juventus. Mi toccavano tutti sul sentimento, dicevano che sarei dovuto rimanere a Busto, li mi volevano bene. Ero indeciso e, mentre ero indeciso, mi infortunai. La Juventus, intanto, stava aspettando, Quando arrivammo al dunque, seppi che la Pro Patria non era più disposta a mantenere le sue promesse finanziarie. Feci una sola cosa: le valige e me ne tornai a Fiume, ero un tipo abbastanza deciso. Ma, ricordo, il 31 agosto, mi arrivò un telegramma: finalmente era stato ceduto alla Juventus. La Juventus, ora, mi dava meno quattrini, ma a me la cosa non interessava: il passo era fatto e basta, la mia vita aveva avuto la svolta che tanto avevo desiderato. Avevo, in quei giorni, ventidue anni. Venni a Torino, alla Juventus, ed alla Juventus restai quattordici anni, dico quattordici; correva il 1928, l’anno in cui si fondarono le basi definitive della più grande Juventus di tutti i tempi. Io era titolare, mediano destro o sinistro. La Juventus. aveva acquistato anche Orsi e Caligaris: i tre ‘nuovi’ eravamo noi. Combi, Rosetta e Caligaris, Varglien I, Monti e Bertolini. Con Caligaris e Bertolini che giocavano a sinistra ed erano entrambi ‘tutti destri’, con Rosetta e Varglien che giocavano a destra e che preferivano calciare col sinistro. Io, Orsi e Caligaris, i tre novellini, ci facevamo compagnia, avevamo fatto gruppo a sé, ma non tardammo ad inserirci nella grande famiglia che, tutta unita, conquistò i cinque scudetti. Anni, quelli, che non scorderò mai, gli anni migliori della mia vita e della mia carriera. Fra l’altro, una volta giocai in nazionale A, a Roma contro la Francia (e vincemmo 2 a 1) ed undici o dodici volte giocai in nazionale B”. (Mario Varglien)

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